A breve si voterà per il nuovo consiglio comunale milanese, e il risultato appare già scritto: la coalizione di Beppe Sala vincerà trionfalmente sulle altre liste, forse addirittura senza ballottaggio: l’alto numero dei candidati, uno schieramento di destra particolarmente sottotono, un cospicuo numero di liste a suo favore e la solita e desolante frammentazione alla sua sinistra rendono il secondo mandato assai plausibile.
Non commenteremo di certo la campagna elettorale imbarazzante da ogni punto di vista del pistolero più veloce del Fatebenefratelli, né le improbabili liste no-vax e simil-complottare come quella del giornalista Gianluigi Paragone, e ci limiteremo agli ambiti che ci sono più consoni, ma si può certo avanzare un’ipotesi: alla borghesia milanese una lista di centrodestra non serve più.
Da tempo, infatti, all’imprenditoria non è strettamente necessario né il sovranismo fascio-leghista, che se perseguito in modo coerente porterebbe a continue frizioni con le borghesie europee – e proprio per questo motivo nessuno si è ancora sognato di attuarlo davvero – né tutto l’arcaico sistema di valori della destra conservatrice (famiglia tradizionale, niente diritti civili, nazionalismo, religione ecc…). La storia è tanto vecchia ed evidente da risultare persino ovvia: basti pensare alle prese di posizione di colossi come Netflix o del mondo della moda, come Dolce&Gabbana o Levi’s. Eppure, rimane un fenomeno contraddittorio, che tende a riprodurre le dinamiche politiche statunitens: due destre che si fronteggiano, una un po’ più al gusto di modernità e tolleranza, l’altra al gusto ordine e tradizione. Quando però la mentalità, il senso comune della popolazione muta, si laicizza e ingloba mode e stili di vita non convenzionali, come può avvenire nelle grandi città, si dimostra più resiliente un partito che pretenda di fondere assieme etica e capitalismo, imprenditoria e giustizia sociale: queste aperture ripagano in termini di immagine, e si rivelano molto più redditizie che non la vecchia ideologia ammuffita. In altre parole, gli interessi degli imprenditori possono essere difesi in modo più efficace da un partito progressista che non da uno conservatore.
Il progressismo rampante firmato PD
È proprio questo liberalismo progressista, giovanilista e rampante di cui Beppe Sala è l’ultimo epigono in Italia. Il suo obiettivo è divenire la versione riuscita del renzismo, come modello positivo e trainante di una nuova imprenditoria interconnessa a livello europeo. A livello locale il gioco rischia pure di riuscirgli. Peccato, però, che questo intento nasconda una realtà predatoria e spietata nei confronti del territorio e dei lavoratori. Con lo stesso trucco che il Partito Democratico ha usato da anni a livello nazionale – barattare diritti sociali in cambio di diritti civili – l’amministrazione uscente ha fatto una serie di iniziative di facciata, per lo più simboliche, in favore delle minoranze, della comunità lgbtq, dei migranti, in modo da potersi differenziare dalla destra retriva e fascistoide, ma allo stesso tempo non è mai intervenuta in modo fattivo e sostanziale né a difesa di queste categorie, né più in generale delle masse popolari. Esempio principe è l’attuale CPR di Milano. Trincerandosi dietro il fatto che i centri per il rimpatrio sono di competenza statale, l’amministrazione di Beppe Sala non ha mosso un dito contro un vero e proprio campo di detenzione, in condizioni che sarebbero inaccettabili anche per un criminale, tantomeno per i migranti che vi sono segregati senza aver commesso reati né danni per la collettività. Il Comune di Milano ha adempiuto scrupolosamente alle direttive nazionali, senza un minimo accenno di pressione politica nei confronti del Governo. Però, ovviamente, i programmi delle liste di “centro-sinistra” sono colmi di belle parole nei confronti dei migranti; il sindaco Sala era in testa alle manifestazioni antirazziste del 2018, e il movimento Black Lives Matter è stato appoggiato da esponenti del PD.
Bufale verdi e psicodrammi: Sala e l’ecologia
Questo atteggiamento ipocrita è evidente anche riguardo la questione ecologica. Anzi, spudorato. Milano è una delle città più responsabili del consumo di suolo in Italia: circa 11 ettari di suolo in meno ogni anno – e stiamo arrotondando per difetto. Ciò non ha certo impedito a Sala entrare a far parte dei Verdi Europei (seppur formalmente non si sia ancora iscritto) e di puntare gran parte della sua campagna elettorale sull’ecologia, farfugliando di piste ciclabili improvvisate e di transizione ecologica dopo aver varato il piano di governo del territorio (PGT) più impattante su Milano dai tempi della giunta Moratti. Stando alla retorica dell’amministrazione, sono stati capaci del più grande piano di riforestazione d’Italia: 3 milioni di alberi promessi alla cittadinanza. Hanno ragione. Per prometterli, li hanno promessi. Però di mantenuto c’è poco. Al momento siamo a 300.000 alberi piantati, che però, se si va a vedere bene, non sono proprio alberi. Sono “piante equivalenti”, cioè, volgarmente, arbusti. Gli alberi veri e propri dovrebbero essere centomila sui 3 milioni, e non è dato sapere quanti ne siano stati piantati ad oggi. Non solo: si piantano più arbusti di quanti se ne possa mantenere: in molte aree sono già morti. È difficile dare un numero preciso delle morti in quanto ci basiamo sulle osservazioni degli attivisti dei comitati che li monitorano, che ovviamente non sono in grado di fare un censimento. In ogni caso, di 3 milioni di alberi neanche l’ombra.
Abbiamo detto comitati. Sì, perché mentre la giunta parla di recupero delle piccole aree verdi, delle zone dissestate e di rifioritura degli spazi sociali, gli spazi verdi che verranno cementificati sono così tanti che sono sorte decine di comitati che hanno lottato per difenderli: il comitato di Piazza Baiamonti, il comitato Salviamo il Parco Bassini, La Goccia, le Giardiniere di Piazza d’Armi, Parco Ticinello, i comitati di Baggio e del Parco delle Cave, il comitato San Siro, i comitati del Seveso… e questi sono solo i più numerosi. Non c’è quartiere di Milano che non abbia visto sorgere il suo comitato in difesa di un’area verde che oggi non esiste più o che rischia di scomparire. Eppure Beppe Sala è ecologistissimo, così ecologista che è tornato a fianco di quegli stessi che aveva fatto uscire dai gangheri con la distruzione del parco Bassini. Chi? Ma i Verdi, naturalmente.
Lo psicodramma dei verdi nasce nel 2019, con lo spostamento del polo di Chimica proprio sopra un parco con alberi centenari. Nasce il comitato, che blocca i lavori a oltranza. L’affaire esonda dagli argini del Politecnico per spostarsi a Palazzo Marino. L’assessore al cemento all’urbanistica Pierfrancesco Maran non ne vuole sapere: lo spostamento s’ha da fare; per gli alberi pazienza, è colpa loro che si sono trovati lì in mezzo. È così che i Verdi insorgono, e passano all’opposizione. Cioè, più o meno. Il consigliere verde Fedrighini rimane dov’è, ma intanto sui giornali il primo cittadino, Maran e la presidente dei Verdi se le danno di santa ragione.
Tranquilli: come si sa, passate le quarantene, arrivate le elezioni, tutto si è aggiustato. Complice una bella lavata di capo da parte dei verdi europei ai colleghi italiani, rei di avere quel minimo di amor proprio per non cospargersi immediatamente il capo di cenere, i Verdi hanno accolto Sala come un vecchio amico. Così, è iniziato un paziente lavoro di assimilazione: già da tempo i democratici avevano un rapporto sempre più dialogante con Fridays For Future, e li hanno ammansiti con mezzi impegni e mezze promesse; dal canto loro i verdi sono riusciti a gestire il riappacificamento come se fosse del tutto naturale, e addirittura sono riusciti a crescere, aggregando diversi esponenti di FFF e pure a intestarsi il salvataggio dello stadio di San Siro: non importa che il comitato contro la costruzione del nuovo stadio abbia portato una ben riuscita petizione alla Commissione Europea, che i servizi della trasmissione televisiva Report abbiano destato preoccupazioni e critiche in tutta Europa: è stato il consigliere Fedrighini che, dopo aver votato il PGT, si è reso conto che forse tirare giù lo stadio, vendere il diritto di superficie, costruirci sopra qualcosa (non si sa nemmeno bene cosa: l’importante era permettere alle imprese di rientrare nei costi), e con i proventi costruire da zero un nuovo stadio era effettivamente un tantino azzardato in mezzo a una pandemia globale. Grazie consigliere per la sua lungimiranza.
E le liste a sinistra di Beppe Sala?
Se Atene piange, Sparta non ride. L’opportunismo verde-democratico è imbattibile, però nella area della sinistra non è che si stia meglio. Il problema più importante è sotto gli occhi di tutti: si presentano cinque liste con cinque candidati/e sindaco. Nessuno ha fatto il tentativo, neanche formale, per arrivare ad una sola proposta elettorale a sinistra del PD (magari con un unico candidato/a sindaco/a sostenuta da diverse liste). D’accordo, diciamo quattro: la lista del PC di Rizzo, che straparla di nazionalismo, lotta all’immigrazione e strizzava l’occhio a Salvini (riuscendo a disgustare la sua stessa organizzazione giovanile) non può essere certo considerato dalla nostra parte. Però, si tratta sempre di quattro liste diverse: Milano in Comune (PRC, Possibile e altri/e) e Civica Ambientalista con Gabriele Mariani; Potere al Popolo con Bianca Tedone; il PCL con Natale Azzaretto e il PCI con Marco Muggiani.
Il fatto che non si sia trovata una soluzione comune ha origini sia nella profonda divisione tra le organizzazioni a livello nazionale (che, nonostante tutti i tentativi possibili e immaginabili negli ultimi anni, si rifiutano di cooperare al di là delle proprie logiche individuali), sia nella diversità dei progetti a livello locale. Se PCI, PCL e PaP hanno creato delle liste fortemente identitarie, con Rifondazione è andata in maniera diversa: si è affidata a un indipendente, Gabriele Mariani, ex PD ma con una lunga militanza nel comitato ambientalista La Goccia e nella rete di comitati Un Altro Piano per Milano, che aveva come obiettivo la costruzione di un polo alternativo a Sala che racchiudesse 5stelle, Rifondazione e Verdi, da un lato, e una lista formata dalla nuova rete dei comitati ambientalisti che si sono creati a difesa delle aree minacciate dalla politica di Sala. I problemi di questa proposta non si sono fatti attendere: i Verdi, come abbiamo detto, si sono schierati direttamente con Sala; i 5stelle hanno preferito correre da soli, spartendo poco e niente a livello politico nazionale con Rifondazione, la quale, nel frattempo, stava rincorrendo Sinistra Italiana con il progetto Milano 2030. E così, fallito il tentativo di Milano 2030 e esauriti gli inseguimenti a chi è tuttora tra i più entusiasti sostenitori di Sala, a Mariani sono rimaste Rifondazione, la lista ambientalista nata dai comitati e, infine, Possibile.
Anche così le difficoltà sono molte: si è appiattito il problema dell’amministrazione di una città come Milano al puro tema urbanistico; poco tempo per creare una lista che non fosse di pura testimonianza. E, come abbiamo detto, nessun confronto con le forze politiche a sinistra, invece che a destra, del PRC. La vita dei comitati, che stavano iniziando a costituirsi in una rete, e che vedevano la difficoltà di organizzarsi in periodo pandemico, è stata influenzata dalla costituzione di Civica Ambientalista: invece di apportare un miglioramento, un’accelerazione ai processi di costituzione, ha tolto vigore agli stessi comitati, spostando il problema del radicamento sul territorio da una questione politica e organizzativa dei comitati a una questione elettoralistica. Purtroppo, uno dei processi politici più interessanti della nostra città (o almeno dei meno noiosi, diciamo) ha finito per attorcigliarsi su sé stesso e ha visto come unica via d’uscita la strada elettorale. Una volta che la via elettorale si sarà esaurita, i comitati non ne otterranno nulla correndo forti rischi di estinzione.
Sarebbe stato molto più opportuno, per queste strutture di movimento, non rincorrere le elezioni e usare i cinque anni a venire per preparare un vero polo alternativo al liberalismo democratico, capace da un lato di raccogliere le esperienze sul territorio dei comitati, dall’altro di far dialogare soggetti politici diversi, e di creare in modo più condiviso un programma che non fosse un mero programma elettorale, con rivendicazioni che dopo le elezioni non servono più a nulla, ma un programma di cambiamento progressivo della realtà a partire dal territorio in cui viviamo.
Votare comunque a sinistra di Sala
Detto tutto ciò, le elezioni implicano comunque una scelta e non si può non dare un’indicazione di voto: ovviamente per noi alle liste a sinistra di Beppe Sala. Non facciamo preferenze, ma sarebbe sbagliato non cogliere il fatto che un’affermazione di un voto alternativo a Sala (pur se frazionato) darebbe il segnale della presenza a Milano di un’area che si oppone alla politica di sostegno a quelli che vengono chiamati “poteri forti” che il sindaco uscente incarna. La presenza di un’area politica alternativa al centro sinistra incrinerebbe l’assordante plauso di cui gode il nostro primo cittadino: in caso contrario, corriamo il rischio di proseguire sulla strada del declino della sinistra che da tempo percorriamo. E poi, del resto, non c’è che l’imbarazzo della scelta.
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