di Fabrizio Burattini
Un paio di settimane fa i giornalisti dell’agenzia France Presse hanno reso pubblici i contenuti della bozza di rapporto che centinaia di scienziati di numerosi paesi, raccolti nell’IPCC (Gruppo di esperti intergovernativi sul cambiamento climatico), stanno mettendo a punto e che dovrebbe essere pubblicato all’inizio del prossimo anno, a distanza di 7 anni dal precedente rapporto. Si tratta di oltre 4.000 pagine, che fanno una diagnosi più che allarmante sui ritmi e sulle conseguenze del riscaldamento globale.
Da quel momento in poi è scattata nel mondo una corsa per convincere l’opinione pubblica del carattere catastrofistico di quella bozza e che certamente la versione definitiva (prevista per il febbraio del prossimo anno) avrà contenuti molto più sfumati.
Tuttavia, la terribile ondata di calore nel nord-ovest americano sta dando ragione a coloro che vengono definiti catastrofisti. La Terra sta bruciando: Australia, Amazzonia, Siberia, Grecia, Groenlandia, Svezia, California ieri, British Columbia oggi (per non parlare del fuoco sotto il mare nel golfo del Messico dove un tubo di petrolio sottomarino si è rotto ed ha preso fuoco).
Proprio a proposito del Canada di questi giorni, il climatologo Simon Donner, professore all’Università della Columbia Britannica, afferma: “Ci aspettiamo di vedere ondate di calore più estreme in futuro perché stiamo aggiungendo gas serra nell’atmosfera. Questo va oltre le mie previsioni. Avere un’ondata di calore così lunga e così calda in Canada è completamente senza precedenti nella storia”. Quell’ondata di calore si spiega con un fenomeno chiamato “cupola di calore”, una massa d’aria molto calda ad alta pressione che si deposita su una zona e non si muove, con un effetto simile a quello di un coperchio su una pentola di acqua bollente. La cupola di calore impedisce la formazione di nuvole, lasciando la strada libera alla radiazione solare.
L’ondata di calore ha provocato quasi 700 morti e 143 incendi. Il villaggio di Lytton, un comune con lo sfortunato record della temperatura più alta, è stato completamente distrutto: “Ci sono voluti solo 15 minuti dai primi segni di fumo all’incendio completo”, ha raccontato il sindaco di Lytton.
Gli esperti concordano sul fatto che senza il cambiamento climatico antropogenico, una tale cupola di calore estremo non si sarebbe quasi certamente verificata. Il riscaldamento globale sta rendendo le ondate di calore più frequenti, più lunghe e più intense.
Perciò, noi riteniamo che quegli scienziati non siano affatto dei catastrofisti, ma che anzi vogliano mettere l’umanità e i governi di fronte alla realtà, ai ritmi e alla rapidità del degrado ambientale, proprio perché si agisca per evitare la catastrofe che si prepara. Pubblichiamo qui, dunque, una sintesi dei principali contenuti di quella bozza.
Esiste una soglia di pericolo che non si deve superare: andare oltre l’aumento di un grado centigrado e mezzo nella temperatura media della superficie del pianeta avrà “conseguenze progressivamente gravi, che dureranno secoli, e talvolta saranno irreversibili”, dice la bozza: ad esempio la dislocazione delle calotte glaciali della Groenlandia e dell’Antartide sarebbe irreversibile su una scala temporale storica. La scomparsa dei ghiacciai (il cui processo di decongelamento per alcuni glaciologi è già iniziato e non si fermerà) causerebbe un aumento del livello degli oceani di circa 13 metri nei prossimi secoli.
Il peggio deve ancora venire
L’accordo di Parigi (2015) che ha fissato l’obiettivo di “mantenere il riscaldamento ben al di sotto dei 2°C continuando gli sforzi per non superare 1,5°C”, secondo gli esperti dell’IPCC, è molto ambiguo: si dovrebbe rimanere ben al di sotto di 1,5°C: infatti, “anche a 1,5°C, le condizioni di vita cambieranno oltre la capacità di adattamento di alcuni organismi”, si legge nel rapporto. Ricordiamo che l’aumento medio della temperatura rispetto all’era preindustriale è già di 1,1°C e l’Organizzazione Meteorologica Mondiale avverte che al ritmo attuale delle emissioni, c’è un rischio del 40% che la soglia di 1,5°C venga superata già nel 2025.
“Il peggio deve ancora venire”, scrive l’IPCC, “con implicazioni per la vita dei nostri figli e nipoti molto più che per la nostra”. Senza misure radicali 130 milioni di persone in più cadranno in povertà estrema entro dieci anni. A 2°C di riscaldamento, il numero di persone affamate aumenterà di 80 milioni entro il 2050, e centinaia di milioni di persone nelle città costiere sperimenteranno inondazioni più frequenti, portando a una maggiore migrazione. Anche a 1,5°C, il numero di abitanti delle città esposte alla carenza d’acqua aumenterà di 350 milioni entro il 2050.
La bozza del rapporto sottolinea che i poveri e i paesi poveri saranno i più colpiti dall’amplificazione del disastro e nota che “i costi di adattamento per l’Africa dovrebbero aumentare di decine di miliardi di dollari all’anno oltre i 2°C”. Chi pagherà? A distanza di 11 anni dalla COP di Cancun (2010), i paesi ricchi non hanno ancora onorato la promessa fatta di versare 100 miliardi di dollari all’anno al fondo per il clima destinato ad aiutare i paesi del Sud del globo. Il non ottemperare a quell’accordo costituisce un vero e proprio crimine senza precedenti contro l’umanità e, ancora più in particolare, contro i poveri che non hanno quasi nessuna responsabilità nel cambiamento climatico! Questo peraltro è uno dei punti fermi nei negoziati in vista della COP 26, prevista per novembre di quest’anno a Glasgow.
Il testo rivelato dall’AFP
Il testo trapelato alla stampa è la bozza della sintesi del rapporto che normalmente viene consegnata ai politici, i quali non saprebbero districarsi nel rapporto che naturalmente è redatto per gli scienziati. L’IPCC è un organismo intergovernativo e, dunque, il rapporto definitivo, prima di essere pubblicato viene normalmente sottoposto ad un “negoziato” tra gli scienziati e i rappresentanti dei governi. Dunque, coloro che hanno fatto trapelare la bozza consegnandola ai giornalisti dell’AFP avevano l’obiettivo di far circolare il testo nella sua stesura originale, prima che i rappresentanti dei governi possano imporre l’ammorbidimento o l’eliminazione delle formulazioni più allarmanti. D’altra parte la lobby dei capitalisti dei combustibili fossili si sforza da sempre di negare o di minimizzare il pericolo e dispone di potentissimi sostenitori politici. Non dimentichiamo che la Cina e l’Arabia Saudita hanno posto il veto alla partecipazione della stampa e delle ONG alle discussioni preparatorie della COP 26. La fuga di notizie è dunque un doppio segnale d’allarme: da un lato, sull’estrema gravità della situazione oggettiva, e dall’altro, sul pericolo che la versione finale nasconda in parte questa estrema gravità all’opinione pubblica mondiale.
Occorre dunque mobilitarsi a fondo e suonare l’allarme con tutte le nostre forze per costringere i governi ad adottare immediatamente le indispensabili misure radicali volte a stabilizzare il riscaldamento ben al di sotto del grado e mezzo, ad adottare misure di giustizia nel rapporto Nord-Sud, nel rispetto rigoroso del principio della “responsabilità comune ma differenziata”, senza trucchi, mettendo in campo tutte le misure compatibili con l’imperativo della protezione della biodiversità.
Zero emissioni nette: una politica criminale
Si fa un gran parlare di “neutralità del carbonio”, di “zero emissioni nette” nel 2050, puntando ad un “superamento temporaneo” di 1,5°C, adottando “tecnologie a basso contenuto di carbonio”, la formula che nasconde l’uso dell’energia nucleare. Non sappiamo se le cosiddette “tecnologie a emissioni negative” riusciranno a raffreddare il pianeta, ma cercheranno di farlo rimuovendo enormi quantità di CO2 dall’atmosfera immagazzinandole poi nel sottosuolo. Tutte argomentazioni fantascientifiche di cui il “nostro” ministro per la transizione ecologica Roberto Cingolani è un campione, ma che hanno il solo scopo di mantenere intatta la vacca sacra della crescita capitalista, di proteggere i profitti dei massimi responsabili del disastro: le multinazionali del petrolio, del carbone, del gas e dell’agroalimentare.
Il recente rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE) sulle “emissioni nette zero” chiarisce il significato di queste scelte. Infatti, per sperare di raggiungere “emissioni nette zero” nel 2050 senza toccare la crescita, secondo questo rapporto, avremmo bisogno di raddoppiare il numero di centrali nucleari in funzione, di continuare a produrre almeno un quinto dell’energia consumata nel mondo con combustibili fossili emettendo dunque ogni anno 7,6 miliardi di tonnellate di CO2 che dovrebbero essere catturate e immagazzinate sotto terra in serbatoi geologici presunti impermeabili, di dedicare oltre 4 milioni di Kmq (una superficie pari a quella della somma dei paesi dell’UE) alla monocoltura di biomassa energetica, di costruire un numero esorbitante di nuove grandi dighe, di scavare tutto quel che c’è da scavare per estrarre le “terre rare” indispensabili per le “tecnologie verdi”.
Questa folle logica produttivistica, verso la quale si stanno orientando tutti i principali paesi del mondo (compresa l’Italia con il suo PNRR), non punta a salvare il pianeta, ma piuttosto ad offrire ai capitalisti la maggior quota possibile del mercato delle nuove tecnologie, la maggior quota possibile dei profitti, peraltro con il corollario di distruggere ancora i diritti sociali e democratici, al fine di “attirare gli investitori”.
Le centrali a gas e i termovalorizzatori che si sta progettando di costruire costituiscono altrettanti crimini contro il clima. I milioni di euro che si promettono alle multinazionali dell’energia che costruiranno queste centrali inutili e dannose sono un insulto a milioni di lavoratrici e di lavoratori sottoposti da decenni ad una austerità salariale soffocante. Immagazzinare la CO2 prodotta da queste centrali e seppellirla nelle falde acquifere è irresponsabile per le generazioni future al pari del seppellire le scorie nucleari. E infine il mercato dei “diritti di emissione” da comprare nei paesi del Sud del mondo è altrettanto colonialista quanto il saccheggio diretto delle risorse di questi paesi fatto nei secoli scorsi e che continua ancora oggi.
C’è bisogno di un’altra politica, sociale, solidale ed ecologica allo stesso tempo che rompa con la crescita capitalista che ha generato, continua a generare e genererà ancora nel futuro disuguaglianza e distruzione. Il produttivismo è una strada senza uscita. Dobbiamo noi e i nostri figli abbattere il muro che ci impedisce di inventare un altro futuro, un futuro degno di essere vissuto. Trovare la via per vivere meglio, per vivere, la via per un futuro possibile e desiderabile: produrre meno, consumare meno, trasportare meno, condividere di più e prendersi cura. Condividere la ricchezza, il lavoro necessario, il tempo e lo spazio. Prendersi cura degli umani, dei non umani, degli ecosistemi. Su scala planetaria. Altrimenti continueremo ad affondare nell’oscurità di una terribile catastrofe.
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