di Giovanna Russo e Fabrizio Burattini
Ci è capitato di vedere i risultati di una interessante ricerca condotta in Uruguay per conto del Programma ONU per lo sviluppo, una ricerca che mette in luce le differenze di genere nell’approccio “psicosociale” alla pandemia in corso in tutto il mondo. Non sappiamo se esistano analoghe ricerche condotte sullo stesso tema in altre parti del mondo e soprattutto in aree socialmente e culturalmente più vicine alla nostra. Abbiamo fatto una sommaria ricerca (con beneficio di inventario, come si suol dire) che però non ha dato frutti.
Al contrario, è mondialmente accertato in un’ampia messe di ricerche epidemiologiche e sanitarie che il coronavirus è nettamente più patogeno e, soprattutto, più letale per gli uomini rispetto alle donne. Una fra tutte, quella condotta dalla rivista Nature che, su di un’amplissima base di dati (oltre 3 milioni di casi globali), dimostra che, sebbene non vi sia alcuna differenza nella proporzione di maschi e femmine con COVID-19 accertato, i pazienti maschi hanno quasi tre volte le probabilità di richiedere il ricovero in unità di trattamento intensivo e molte maggiori probabilità di morte rispetto alle femmine. Lo stesso nell’analoga ricerca pubblicata da Science.
Apparentemente in contrasto con queste evidenze, risulta che le donne intervistate nella ricerca uruguayana affermano in larga maggioranza che “la situazione di emergenza sanitaria colpisce le donne più degli uomini”. Questa percezione nel giugno 2020 raccoglieva il consenso del 34% degli uomini e del 43% delle donne intervistate. Nel marzo 2021, il divario si è straordinariamente allargato: se questa percezione tra gli uomini è rimasta sostanzialmente stabile, con una percentuale leggermente salita al 37%, la sensazione delle donne di essere le principali vittime della pandemia, alla prova di oltre 12 mesi di convivenza con il virus, è enormemente cresciuta, giungendo al 66%.
Come mai c’è questa incoerenza tra i dati sanitari e la percezione che ne hanno le donne? Probabilmente, la percezione femminile va al di là del semplice punto di vista sanitario e considera la pandemia da un punto di vista più multidimensionale, mettendo insieme le sue conseguenze socioeconomiche, materiali e immateriali.
La diversa percezione del rischio
Dai dati uruguayani risulta inconfutabilmente che le donne hanno avuto una percezione mediamente più alta del rischio potenziale rappresentato dal Covid-19 e che si prendono maggiormente cura di se stesse.
I ricercatori hanno chiesto alle/agli intervistate/i se fossero preoccupati per la malattia e per il suo impatto sui familiari più stretti: la maggioranza degli intervistati, uomini e donne, ha risposto positivamente. Ma le donne hanno costantemente riportato una maggiore preoccupazione, anche se la differenza tra i generi è diminuita dai quasi 20 punti percentuali all’inizio della pandemia a meno di 10 punti percentuali nel novembre 2020, quando i casi di covid-19 erano tornati a salire alle stelle anche nel paese latinoamericano.
E non si tratta solo di una differenza di approccio psicologico, ma anche di comportamenti: le donne hanno riferito di indossare mascherine all’aperto e di rispettare la distanza fisica in misura maggiore rispetto agli intervistati di sesso maschile. Il 64% delle donne intervistate (solo il 47% tra gli uomini) ha dichiarato che l’uso universale delle mascherine è una misura “molto efficace” e il 74% (il 65% tra gli uomini) è “fortemente d’accordo” sull’obbligo di indossarle in spazi pubblici chiusi.
I dati dell’Uruguay sono coerenti con quelli di un sondaggio pubblicato dall’Accademia Nazionale delle Scienze degli Stati Uniti nell’aprile 2020 su persone di otto paesi sviluppati. In tutti gli 8 paesi sono stati rilevati divari di genere nell’applicazione del distanziamento fisico, nell’uso di mascherine e degli altri accorgimenti igienici di prevenzione. Gli uomini dovunque si sono dimostrati meno rispettosi delle misure di prevenzione rispetto alle loro concittadine, probabilmente contribuendo così a una loro maggiore esposizione al rischio di contagio.
I comportamenti
E’ evidente come questi dati confermino la minore disposizione delle donne ad esporsi inutilmente al rischio rispetto agli uomini, condizionati da una “mascolinità” associata alla loro immagine, al desiderio di mostrarsi più sprezzanti dei rischi e delle loro conseguenze nella competizione generalizzata imposta dai modelli sociali.
Con tali comportamenti, probabilmente, le donne mostrano anche maggiore consapevolezza della loro immensamente maggiore possibilità di essere colpite dagli effetti sociali della pandemia. Effetti che tutte le ricerche mettono in luce, a partire dalla ricerca delle Nazioni unite sull’ “Impatto del Covid-19 sulle donne”.
Secondo le Nazioni Unite, l’impatto economico del virus, comunque molto grave, porta elementi di sofferenza indubbiamente molto maggiori per le donne. A livello mondiale, il 94% degli uomini tra i 25 e i 54 anni lavora, contro il 63% delle donne. E, quando lavorano, queste ultime hanno uno stipendio minore (secondo Eurostat, nella UE, la differenza media nello stipendio è del 15%).
Ciò è confermato dalle percezioni rilevate dalla ricerca uruguayana: il 26% degli uomini ha dichiarato che il proprio reddito mensile era “sufficiente per le spese necessarie ogni mese” e di essere stati perfino in grado di “risparmiare qualcosa”, mentre solo il 14% delle donne ha potuto fare le stesse affermazioni. Il 18% delle intervistate ha dichiarato di “non essere in grado di coprire le spese necessarie ogni mese”, rispetto al 9% degli intervistati maschi.
La violenza di genere
Ma non si tratta solo di economia. Nel corso dei più o meno rigidi lockdown decretati dai vari governi in (quasi) tutto il mondo, le donne, con la coesistenza domestica obbligatoria, sono state maggiormente esposte alla violenza di genere. Numerose ricerche ce lo confermano, segnaliamo tra queste la relazione della Commissione d’inchiesta del Senato italiano sul femminicidio e sulla violenza di genere del luglio 2020.
In più, la chiusura delle scuole e dei centri diurni per le persone non autosufficienti sta drammaticamente trasferendo un’enorme mole di lavoro domestico e di cura da una manodopera retribuita (operatrici e operatori degli asili, delle scuole, dei centri sanitari, ecc.) a una non retribuita, costituita in larghissima parte da donne. Le donne (secondo la ricerca delle Nazioni unite) spendono in media 4,1 ore al giorno per i lavori domestici e di cura non retribuita dei familiari, contro una media di 1,7 ore al giorno spese dagli uomini.
Certo, bisognerebbe saperne di più sulla reale finalità del tempo che, secondo queste ricerche, uomini e donne dedicano alle necessità familiari per verificare se, pur nelle trasformazioni che hanno investito la forma delle convivenze, continua ad affermarsi una divisione di ruolo che assegna alle donne i carichi più ripetitivi e sgradevoli, mentre gli uomini si riservano mansioni più piacevoli e gratificanti (per esempio, portare i bambini al parco). Il divario, allora, non sarebbe misurabile solo in termini quantitativi ma in riferimento ad una relazione diseguale e gerarchizzante, che ha il suo fondamento nella divisione ineguale del lavoro di riproduzione sociale.
La pandemia (con la sua maggiore espulsione di donne dal mercato del lavoro retribuito, con la necessità di gestire le quarantene, con la chiusura delle scuole e di numerosi altri servizi pubblici) sta peggiorando ilgrandissimo divario di genere nelle ore di lavoro non retribuito, con inevitabili ripercussioni nella sfera del lavoro retribuito.
Famiglia e lavoro
Se già strutturalmente la nascita di un figlio causava molto spesso le dimissioni o il licenziamento delle donne dal proprio lavoro, la nuova situazione risulta enormemente aggravata nella possibilità di conciliare famiglia e lavoro. La politica – esplicitamente quella di destra, ma più ipocritamente anche quella di “sinistra” – dà per scontato che la cura di bambini e di anziani, di fronte ai tagli imposti ai servizi pubblici, possa essere “assorbita” dai cittadini, soprattutto dalle donne, che forniscono con tale attività (non conteggiata nel PIL) un enorme sussidio all’economia nazionale. La pandemia sta aggravando in maniera smisurata questo fenomeno.
Secondo la ricerca uruguayana, il divario di genere riguarda anche l’approccio allo smart working e al telelavoro, il cui uso, come ovunque, è cresciuto anche nel paese latinoamericano. Alla domanda se si ritenga o meno tale forma di lavoro “più produttiva” la differenza tra le risposte dei maschi e quelle delle donne è palese. La percentuale di donne che prediligono il telelavoro è la metà di quella dei maschi, rispecchiando così le difficoltà che le donne affrontano nel conciliare il lavoro a casa con le crescenti richieste di cura e la persistente mancanza di ridistribuzione della cura con gli uomini nella famiglia.
Dunque la pandemia amplifica tutte le disuguaglianze esistenti. Ce lo spiega in modo molto attento la giornalista femminista inglese Helen Lewis su TheAtlantic.com, che apre il suo articolo affermando che “Quando sento gente che cerca di trovare il lato positivo del distanziamento sociale e dello smart working ricordando che William Shakespeare e Isaac Newton realizzarono le loro opere migliori mentre l’Inghilterra era devastata dalla peste, la risposta è ovvia: nessuno dei due doveva occuparsi dei bambini”.
Ma, tornando in conclusione alla ricerca uruguayana e alle sue domande finali, in particolare a quelle su come vengano percepite le prospettive per il futuro (“Come vedi la tua situazione economica personale e familiare nel prossimo anno”), la maggioranza degli intervistati di entrambi i sessi crede che sarà “uguale o peggiore”. Ma, mentre il 20% degli uomini pensa che “il prossimo anno sarà migliore”, questa previsione viene fatta solo dal 14% delle donne. E alla domanda più generale su “come vede la situazione economica del paese per il prossimo anno” le donne rispondono al 63% che sarà “peggiore” (contro il 53% degli uomini).
I ricercatori si sono spinti anche a chiedere “come pensa che la gente vivrà nel 2045 rispetto alla situazione attuale”: il 38% degli uomini ha detto che “il futuro sarà migliore”, contro il 24% delle donne.
Dunque, gli effetti ineguali di oggi della pandemia plasmano anche le diverse previsioni personali e collettive per il futuro, sia a breve che a lungo termine, e dunque agisce significativamente anche l’impatto simbolico della vulnerabilità che molte donne stanno attualmente vivendo.
Evidentemente, lo sguardo più largo che le donne hanno, la loro maggiore consapevolezza del contesto in cui vivono loro, i loro figli, le loro famiglie e la società, fa loro percepire anche gli effetti della diffusa mancanza di una risposta diversa alla pandemia e alla crisi sociale ad essa collegata, di una risposta alternativa a quella indicata dal capitalismo. Lo smarrimento e l’afasia della sinistra (evidentemente non solo di quella uruguayana) provocano anche questo.
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