di Giorgio Simoni
L’emergenza epidemiologica è tutt’altro che cessata, si viaggia ancora al ritmo di 350 morti al giorno solo in Lombardia, ma già si comincia a parlare della «fase due», ovvero del periodo di transizione verso il ritorno dalla normalità. Sarà che la Milano degli affari ha bisogno di riprendere in fretta a far girare i quattrini, ben rappresentata in questo dal sindaco Beppe Sala che rilanciò il funestissimo slogan «Milano non si ferma». Sarà anche che, in generale, Confindustria sta esercitando pressioni incredibili per la ripresa delle attività produttive. Fatto sta che il tema della «fase due» viene posto all’attenzione dell’opinione pubblica.
E i quotidiani milanesi di sabato 4 aprile si occupano di un aspetto particolare della questione: la gestione del trasporto pubblico. Citiamo da milano.repubblica.it:
Cambierà dunque il modo di viaggiare sui mezzi pubblici nella fase due: spostarsi sarà all’insegna del distanziamento sociale e della protezione necessaria dal rischio di contagio. Una “New Start”, una nuova partenza: si chiama così il piano che Atm sta mettendo a punto con il Comune, che entrerà in azione nelle prossime settimane una volta superata la fase acuta del confinamento in casa.
I dettagli sono in corso di definizione, il piano va affinato. Ma il “nuovo inizio” del trasporto pubblico richiederà inevitabilmente un atteggiamento più paziente da parte di tutti. A partire dai passeggeri delle metropolitane. È qui che il piano allo studio – del quale ieri si è discusso in una riunione ” virtuale” tra i vertici di Atm e il Comune – ipotizza il contingentamento fisso dei viaggiatori ai tornelli nei mezzanini: la centrale operativa di Atm apre il tornello, conta un numero limitato di passeggeri che possono scendere in banchina e, raggiunto il limite, blocca la sbarra. Fino al treno successivo. Una volta saliti a bordo, ci si dovrà poi mantenere lontani gli uni dagli altri di almeno un metro. È per agevolare questa pratica che si sta pensando di posizionare dei segnali sul pavimento delle carrozze, ognuno a un metro (almeno) dall’altro, per indirizzare i passeggeri.
Orbene, a noi sembra che le cose siano un po’ meno semplici di come vengono presentate e che le soluzioni proposte si trovino a cavallo tra l’eccesso (doloso?) di ottimismo e l’eccesso di fantasia.
Ipotizziamo una situazione in cui il «lockdown» sia stato revocato, le attività produttive e le scuole abbiano riaperto: evidentemente la domanda di mobilità e quindi la pressione sul sistema dei trasporti tornerebbe ai livelli abituali. Ma, allo stesso tempo, per un certo periodo, sarebbe necessario mantenere alcune misure di sicurezza contro il rischio di un ritorno del contagio, prima tra tutte il distanziamento sociale (e oggi cominciano a esserci dubbi che un metro sia sufficiente…).
Il problema si risolve con il contingentamento dei viaggiatori della metropolitana ai tornelli? No, perché questo significherebbe solo spostare l’ammassamento delle persone dai treni e dalle banchine ai mezzanini delle stazioni. E il distanziamento sociale andrebbe a farsi benedire. Senza parlare delle stazioni di interscambio, dove il passaggio da una linea all’altra non è interdetto da tornelli e quindi non può essere contingentato.
La verità è che il sistema di trasporto pubblico non è in grado, né può esserlo, di garantire il distanziamento sociale in un contesto nel quale i livelli di attività e quindi gli spostamenti delle persone siano tornati ai livelli precedenti alla crisi epidemiologica. Non è una bella notizia, ma è così.
Basta fare due calcoli per dimostrarlo. Un treno della metropolitana ha 220 posti a sedere e 1.000 in piedi: in totale può portare quindi poco più di 1.200 passeggeri. La capienza in piedi è calcolata secondo lo standard di 0,25 metri quadri di spazio calpestabile per ogni passeggero. I dati ci dicono che nelle ore di punta e nelle tratte più cariche della rete, il tasso di riempimento varia tra il 75 e il 90%, secondo le linee, quindi su ogni treno ci sono tra i 900 e i 1.100 passeggeri. In parole povere: è molto affollato.
Immaginiamo di dover applicare la distanza di un metro tra i passeggeri: sarà necessario, in primo luogo, occupare solo la metà dei posti a sedere, quindi la disponibilità scende da 220 a 110. In secondo luogo, un passeggero in piedi occuperà l’area di un cerchio di un metro di diametro, quindi 0,785 metri quadri, al posto degli 0,25 metri quadri normalmente assegnati: ecco che la capienza scende da 1.000 a 318. Complessivamente, quel treno potrà portare 428 persone (sedute e in piedi) invece che 1.220: il 35%!
Per usare una similitudine: è come avere una brocca da un litro, ma poterla riempire solo per poco più di un terzo. Non ci si potrà mettere la stessa quantità di liquido! Lo stesso identico ragionamento, con le dovute proporzioni, vale per tutti gli altri mezzi di trasporto: autobus, filobus, tram e treni.
Dice: ma non si potrebbe aumentare il numero di corse per compensare la minore capienza? No, perché il numero di veicoli e treni in possesso delle aziende di trasporto (in primis, Atm) è determinato nella misura necessaria a garantire i livelli di servizio attuali (in condizione ordinarie). Procurarsene di nuovi, a parte ogni considerazione economica, richiede mesi per gli autobus e anni per tram e convogli della metropolitana: questi sono i tempi di produzione (ipotizzando, peraltro, che le fabbriche riaprano…).
Inoltre esistono limiti infrastrutturali. Per ragioni di sicurezza, il numero di treni in circolazione su una determinata linea non può superare una certa soglia e a Milano, per quanto riguarda le linee 1 e 2, siamo già molto vicini a questa soglia.
Beninteso: un potenziamento del trasporto pubblico è fortemente necessario, in tempi di catastrofe ambientale imminente per via del cambiamento climatico in atto. Ma non è compatibile, in termini significativi, con la prossima gestione di una fase di transizione successiva all’emergenza epidemiologica.
Fintanto che le autorità sanitarie riterranno necessaria la misura del distanziamento sociale (e solo loro hanno il diritto di esprimersi in proposito), il trasporto pubblico non sarà in grado di trasportare la stessa quantità di passeggeri trasportati in condizioni di normalità.
E nemmeno è possibile incentivare l’uso dell’automobile. Sia perché la rete stradale è già fortemente congestionata e finirebbe per essere paralizzata (con conseguente paralisi anche del trasporto pubblico di superficie); sia perché morire per le conseguenze dell’aumento dell’inquinamento atmosferico non è maggiormente auspicabile che morire per il virus.
Tutto questo per dire che ognuno di noi spera che l’emergenza epidemiologica si affievolisca, e poi cessi del tutto, il prima possibile, ma la comunità scientifica ci ha avvertito che sarà necessario mantenere una serie di cautele per un ulteriore periodo. Chi dipinge questa «fase due» come un ritorno alla piena attività produttiva e sociale, semplicemente con il corredo di mascherine sul viso, non dipinge la realtà per quello che è. E il tema del trasporto pubblico ne è solo un esempio. L’immediato ritorno alla «normalità» non è possibile.
Il sospetto che chi fornisce una visione troppo idilliaca della situazione sia condizionato dalle spinte di quegli attori affaristici e confindustriali di cui parlavamo in cima è molto forte.
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