di Luca Marchi e Igor Zecchini
Trentaquattro dipendenti dell’IKEA di Corsico (a cui potrebbero aggiungersene altre/i a seguito della vicenda giudiziaria) hanno ricevuto nei giorni scorsi un avviso di procedimento disciplinare con sospensione immediata dal lavoro per colpa grave. I loro armadietti sul lavoro sono stati immediatamente svuotati e gli è stato ritirato il badge di accesso. L’accusa per tutti/e è di aggirare le procedure per l’acquisto di merci dell’azienda., La tecnica sarebbe stata di sostituire i codici a barre di articoli in vendita nel reparto “angolo delle occasioni”, dove lavoravano gran parte dei/delle dipendenti sospesi/e, con altri codici con un prezzo ancora più favorevole acquistandoli poi. Questo è quanto pubblicato con clamore dai media. In realtà le lettere di contestazione sono più articolate e girano pressoché tutte sul mancato rispetto del regolamento aziendale in merito alla possibilità per i dipendenti di acquistare merci dai negozi. In realtà una pratica normale in qualsiasi ditta del commercio.Ora non vogliamo entrare nel merito della vicenda giudiziaria ma crediamo che questo avvenimento parta da situazioni e progetti padronali ben definiti.
IKEA ha nella sua mission il: “creare una vita migliore per la maggioranza delle persone”.
Dal 1989 ikea ha propagandato questo obiettivo alla sua clientela adoperandosi perché la visita dei propri negozi si trasformasse in esperienza positiva per tutti i soggetti che sono stati usati nelle varie campagne pubblicitarie che si sono succedute: famiglie con bambini, coppie etero e gay, amanti degli animali che passeggiano allegramente tra gli scaffali, mamme separate. Sfruttava questa apparente volto moderno e progressista come taglio pubblicitario per richiamare sempre più visitatori. I risultati dei bilanci testimoniano come questa politica sia stata vincente.
Questa è una parte della storia, quella pubblica. Però se queste stesse figure appena citate avevano in tasca oltre che il portafogli anche il cartellino da dipendente la cosa diventava ben diversa. I grandi utili della multinazionale del mobile sono stati fatti a discapito dei propri dipendenti, diretti o indiretti. Difatti basta fare due conti per constatare che, attraverso la politica dei part time (imposti), la media nazionale del monte ore suddiviso per persona corrisponde a 23,8 ore settimanali. Come: voi richiedete la riduzione dell’orario di lavoro e vi lamentate se all’IKEA lavorano solo 24 ore settimanali? Peccato che a questo numero di ore corrisponde un salario inferiore ai 1000 euro mensili. Se a ciò aggiungiamo contratti precari, lavoro in alcuni reparti con appalti esternalizzati al massimo ribasso, stage da 40 ore settimanali con paghe da 600 euro, contrattazione integrativa che scarica sui dipendenti costi di investimenti azzardati e ristrutturazioni spavalde… Salari da fame quindi, poco al di sopra, quando non sotto, della soglia di povertà di cui ci hanno riempito le tasche parlando del reddito di cittadinanza. Salari da fame che non hanno trovato una iniziativa sindacale efficace, anzi l’ultimo contratto della grande distribuzione chiuso a dicembre (e su cui torneremo), fa arretrare nuovamente le condizioni di vita di lavoratori e lavoratrici.
La conclusione di questo ragionamento è che se qualcuno ruba nell’IKEA è l’IKEA stessa che ruba salari e dignità ai suoi dipendenti e non il contrario.
Ma c’è ancora di più. In un contesto dove la direzione preferisce un organico “alternativo” a quello stabile (i dipendenti con contratti precari sono alternativi ed economicamente e sindacalmente più indifesi rispetto alle persone assunte con contratti a tempo indeterminato), dove esiste un premio incentivante “alternativo”, ora siamo arrivati anche alla ristrutturazione “alternativa”.
Qualche tempo fa il colosso svedese ha presentato un piano ristrutturazione mondiale che prevede un taglio del personale di 7500 persone che verranno licenziate sull’altare della digitalizzazione che IKEA si è data come obiettivo . In ogni nazione ci sono quindi esuberi e in Italia saranno 300 circa. Il piano di trasformazione è stato presentato ai sindacati che, pur senza prendere iniziative di contrasto, al momento hanno respinto al mittente la richiesta di apertura dello stato di crisi non ritenendo ci fossero le condizioni per aprire una stagione di cassa integrazione, licenziamenti e tutto quello che ne consegue.
Ecco allora che il percorso lanciato dalla Svezia si inceppa al primo gradino della scala e a nessuno è dato sapere dove porterà. Quindi come arrivare agli obiettivi imposti? Allora si agisce il piano B, ovvero una ristrutturazione “alternativa”. Lo si era visto con i primi licenziamenti, dei delegati sindacali SGB Luca e Mauro a Corsico e Carugate, già dal 2016 che IKEA aveva bisogno di eliminare le voci di opposizione alle sue strategie. Il percorso di riduzione del personale è proseguito con licenziamenti individuali in molti negozi con le motivazioni più colorite, a cominciare dai casi delle tre mamme ,una da Bari che ha vinto la sua causa ma che IKEA ha impugnato,
una di Corsico che a seguito di un incidente in auto è stata licenziata perché assente per tre giorni senza essere stata ricoverata, e la terza mamma, sempre lavoratrice del negozio di Corsico, che è Marica il caso più conosciuto, perché separata con due bimbi di cui uno disabile e che è stata cacciata per incompatibilità fra la gestione delle sue problematiche famigliari e gli orari imposti dai computer di IKEA. Altri venti verranno lasciati a casa dagli uffici direzionali di Roma.
I trenta e oltre lavoratori e lavoratrici che vogliono licenziare oggi, come si suol dire cadono a fagiolo e il loro numero corrisponde proprio a quelli/e che si dovevano lasciare a casa in quel negozio con il progetto di ristrutturazione. Si sta costruendo una campagna di criminalizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici per avere le mani libere di operare certi che nessuno farà resistenza e che gli interventi della magistratura sono comunque lentissimi.
Bisogna fermare subito la mano dei padroni dell’IKEA. E’ il compito che hanno davanti i lavoratori e le lavoratrici e le loro organizzazioni sindacali. Ora, non c’è più tempo.
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