di Igor Zecchini
207.000, tanti sono gli immigrati e le immigrate che hanno presentato domanda di permesso di soggiorno sulla base del parzialissimo provvedimento di sanatoria adottato dal governo italiano lo scorso maggio all’interno del “decreto rilancio”. Un flop totale, non solo per il numero assolutamente al di sotto della stima che viene fatta sulla presenza di immigrati e immigrate irregolari ma che lavorano nel nostro paese (6/800.000 persone), ma anche per la natura delle domande che riguardano all’85% colf e badanti. L’obiettivo dichiarato di questo provvedimento, oltreché di affrontare una delle possibili fonti di contagio del covid in quanto si tratta di persone prive di assistenza sanitaria, era di fare emergere dal lavoro nero soprattutto lavoratori e lavoratrici del settore agricolo impiegati molto spesso con condizioni disumane e con salari che neanche possono essere considerati da fame.
Evidentemente le lacrime di coccodrillo dei ministri (quella della Bellanova oggi come quelle della Fornero ieri) portano male e il risultato è molto lontano dall’obiettivo. Quindi a oggi, sempre secondo stime governative, sarebbero almeno 400.000 le persone mantenute nella clandestinità dalla normativa italiana sull’immigrazione. 400.000 lavoratori e lavoratrici che producono, creano ricchezza e, in moltissimi casi, suppliscono alle carenze del nostro welfare nei confronti degli anziani.
Ma anche per i 207.000 che la richiesta di emersione l’hanno fatta le cose sono tutt’altro che risolte. In un incontro tra diverse associazioni di immigrati/e e i dirigenti della prefettura milanese svoltosi lunedì scorso a seguito di un presidio davanti alla prefettura stessa, i funzionari hanno alzato le mani davanti alla situazione di enorme difficoltà che stanno affrontando. Infatti a Milano su 26144 istanze presentate dal 15 agosto ad oggi 136 quelle andate a buon fine. 16 sono gli appuntamenti previsti la prossima settimana. Dividete 26008 per 16 e fate voi i conti di quanti anni saranno necessari per chiudere la faccenda. E’ stata fatta una legge senza prevedere nessuna risorsa aggiuntiva per l’apparato burocratico che la dovrebbe applicare col risultato di renderla totalmente inefficace. E nelle altre prefetture non è che le cose vadano meglio.
Così decine e decine di migliaia di persone sono legate mani e piedi ai datori di lavoro che sono titolari della richiesta iniziale. Nessuna possibilità di cambio è concessa senza avere prima la emissione effettiva del permesso di soggiorno Così se il tuo datore di lavoro ti caccia o muore o semplicemente trovi un lavoro migliore, sei impossibilitato a modificare la situazione e vedi lo spettro della fame. Niente di nuovo sotto al sole quindi. La politica del governo Conte sull’immigrazione è totalmente nel solco delle scelte che da decenni vengono operate nel nostro paese e nell’Europa intera. Un misto di razzismo istituzionale, basso populismo e finta (nonché pelosa) carità.
Del resto basta seguire le mosse della ministra Lamorgese per rendersi conto di cosa stiamo parlando. La nostra, cresciuta negli anfratti dell’apparato statale fino ad essere stata per un certo periodo prefetto di Milano, può vantare meriti che ministri degli interni di più schietta formazione politica non possono appuntarsi al petto. Ha ripreso le fila della politica avviata alcuni anni fa dal piddino Minniti che puntava a frenare l’immigrazione clandestina spostando la frontiera per gli immigrati e le immigrate dai confini territoriali italiani a quelli delle coste dei paesi del nord africa seguendo l’antico motto: “occhio non vede, cuore non duole”. Nel mentre approntava una “riforma” dei decreti sicurezza (che non ha modificava la sostanza dei precedenti provvedimenti di Salvini), ha lavorato assiduamente a stringere accordi con i governi dei paesi nord africani per ripetere quell’orrore disumano che è riuscito a realizzare Minniti con la Libia. L’obiettivo è non solo quello di rafforzare il pattugliamento navale davanti alle coste di questi paesi, ma di costruire una rete di centri di detenzione e respingimento fuori dai nostri confini, appaltandone ad alltri la gestione.
E’ in questo quadro che si colloca l’accordo (rigorosamente secretato) con il governo tunisino stretto nell’agosto scorso mentre uno analogo si sta profilando all’orizzonte con quello del Marrocco. La Tunisia è, in questa fase, uno dei paesi da cui più frequentemente partono imbarcazioni per raggiungere le nostre coste. Un paese attraversato da una fortissima crisi economica in cui le diseguaglianze sociali sono enormi e in cui le speranze di cambiamento accese dalla “primavera araba” (di cui proprio in questi giorni ricorre il decimo anniversario) sono totalmente svanite.
Migliaia e migliaia di giovani stanno abbandonando il paese nella speranza di avere una prospettiva di vita in Europa. Attraversano quindi il Mediterraneo spesso con piccole imbarcazioni, difficilmente individuabili dal sistema radaristico ma anche molto pericolose per chi le utilizza, proprio per le dimensioni ridotte che rendono a volte mortale l’attraversamento del braccio di mare che separa la Tunisia dal nostro paese. Anche i dati dei respingimenti ce lo dicono chiaro, nel corso del 2019 il 25% degli immigrati riportati forzatamente in patria, sono di origine tunisina.
Si tratta, per il governo italiano, dell’investimento di 11 milioni di euro, risparmiati dal capitolo accoglienza, per fornire alla Tunisia un radar, la manutenzione delle motovedette, due imbarcazioni ad alta velocità, programmi di formazione per le guardie di frontiera e un sistema informativo di controllo del mare. Clamoroso è che mentre il governo tunisino, sotto la spinta di varie associazioni indipendenti, ha fornito non l’accordo ma la tabella delle “donazioni” che ne risultano, il governo italiano, dopo una richiesta di accesso dell’ASGI (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione), ha semplicemente negato l’esistenza di tale accordo annunciato comunque dalla stampa. Quello che è certo e che il ministro Lamorgese ha affermato di avere ottenuto dal governo tunisino “dei voli aggiuntivi che ci hanno consentito di procedere più celermente alle operazioni necessarie di rimpatrio per coloro che non hanno titoli” (fonte Nigrizia).
In questo quadro anche la frontiera interna si sta modificando. Infatti il modus operandi dei CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio) ha subito una brusca torsione. Le associazioni e le reti che hanno continuato incessantemente a lavorare per denunciare la stortura giuridica rappresentata da questi centri di “detenzione amministrativa” , le vessazioni e le violenze che avvengono all’interno di questi lager moderni, la continua violazione dei diritti umani che vengono operate al loro interno, si trovano oggi ad affrontare una situazione nuova. In particolare i CPR erano luoghi in cui normalmente gli immigrati chiamati clandestini venivano imprigionati per mesi in attesa di poter essere espulsi dal territorio italiani. A volte venivano poi rilasciati per la mancanza dei presupposti per l’espulsione.
Oggi i CPR stanno diventando il trampolino per un’espulsione rapida proprio degli immigrati di origine tunisina che, se intercettati allo sbarco sulle nostre coste o addirittura in mare, vengono prima rinchiusi sulle navi quarantena che sono state approntate davanti a diversi porti del sud Italia, spesso per periodi molto più lunghi dei quattordici giorni che sarebbero previsti per la quarantena del covid, poi vengono traferiti nei CPR vicini ad aeroporti e, dopo un breve periodo di detenzione che varia tra i sette e i quattordici giorni, proprio sulla base di questo accordo, caricati su voli charter e rispediti in Tunisia. Peccato che per accelerare i tempi delle espulsioni le violazioni dei diritti di queste persone sono aumentate a dismisura. Infatti, in barba alla stessa normativa del decreto sicurezza Lamorgese e con un netto peggioramento rispetto alla precedente gestione, lo sforzo dell’apparato repressivo è concentrato sul totale isolamento deli CPR e dei loro “ospiti” dall’esterno. Nessuna informazione viene data sulle procedure per poter richiedere lo status di rifugiati, i telefonini vengono immediatamente sequestrati, ostacoli di ogni genere vengono posti all’ingresso di avvocati, un murototale davanti alle associazioni di solidarietà. Tutto ciò aiutato dal totale disinteresse della politica e dell’informazione su quanto avviene dentro a questi mostri giuridici (se si eccettuano le notizie sui momenti di rivolta, che avvengono frequentemente, o sugli immigrati che muoiono a seguito di violenze o suicidio).
Le associazioni antirazziste, le reti di solidarietà, stanno faticosamente e con caparbietà cercando di rompere il muro dell’omertà che circonda i CPR, che sono la punta dell’iceberg della politica di razzismo istituzionale vigente nel nostro paese, riadattando la loro azione alla velocità resa necessaria da questa nuova situazione. Una strada ancora lunga ma una battaglia inevitabile in cui, gioco forza, dovranno entrare in campo i veri protagonisti: gli immigrati e le immigrate che vivono in Italia soprattutto quelli e quelle delle seconde generazioni che hanno cominciato ad abbozzare il movimento chiamato Black Live Matter. La loro mobilitazione è la scommessa del prossimo futuro. Dobbiamo vincerla.
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