di Igor Zecchini Antonello Zecca

Ad ascoltare i telegiornali della sera del 27 febbraio, sembrava di essere stati coinvolti in uno grande scherzo carnevalesco. Dopo molti giorni di continuo ed incessante bombardamento mediatico sugli effetti del coronavirus, improvvisamente ci siamo trovati di fronte ad una retromarcia ben rappresentata dal provvedimento di riapertura dei bar lombardi dopo le 18 di sera a due giorni da quello di chiusura dopo tale orario. Il segretario del PD in persona ha fatto l’atto simbolico di gustare un aperitivo in un locale della movida milanese.

Anche la diffusione dei numeri dei contagi viene letta con toni e metodologia più rassicurante per trasmettere il segnale di scampato pericolo.

Del resto, la contraddittorietà dei provvedimenti presi dal governo e dai governatori delle varie regioni coinvolte è palese e conclamata. Si sono chiuse scuole e vietati assembramenti mentre si sono lasciati aperti centri commerciali oramai divenuti luoghi di aggregazione di decine e decine di migliaia di persone. Si sono chiusi i bar dopo le 18 come se prima di tale ora il contagio in quei luoghi non si potesse propagare. Si blocca l’attività del Policlinico di Milano per un medico contagiato, ma il giorno dopo si richiamano al lavoro molti dei 250 lavoratori a cui si è fatto il tampone senza avere gli esiti dello stesso e quindi non sapendo se quei lavoratori e quelle lavoratrici abbiano contratto il virus o meno.

Oggi però ciò che incide, su quello che sembra un ammorbidimento delle scelte di contenimento della possibilità di propagazione del Covid-19, è il forte appello, che arriva da vari settori produttivi, a limitare i danni economici provocati a svariati livelli dai provvedimenti del governo e anche dalla campagna mediatica che li accompagnano. Milano non si ferma grida il sindaco Sala: the show must go on. Del resto su altre emergenze sanitarie (l’ILVA, la terra dei fuochi ad esempio) per non parlare di quelle climatiche (Milano è ben oltre i limiti di sforamento della presenza del PM10 nell’aria) nessuno propone misure emergenziali per non disturbare il profitto.

Il virus c’è ed è pericoloso soprattutto perché, al momento, non è stata individuata una cura specifica e l’unico modo per intervenire è quello di evitare la diffusione del contagio che, in questo momento, potrebbe essere letale (in misura ben più ampia per le persone in più avanzata età e con deboli difese immunitarie).

La vicenda del corona virus apre riflessione su molte problematiche ognuna delle quali meriterebbe un saggio a parte. Non possiamo quindi essere esaustivi e le righe che seguono hanno solo il compito di entrare in questo dibattito senza avere la pretesa di dare soluzioni definitive ma di porre dei problemi.

La crisi di direzione politica della borghesia è virale

Cominciamo col dire che non ci convincono le ipotesi “complottiste” né per quello che riguarda l’origine del virus né per il giudizio sui provvedimenti presi dal governo. Non siamo in grado evidentemente di dire come è nato il Covid19, non siamo scienziati né virologi (del resto anche la scienza oggi non ha una risposta a questa domanda), ci sembra però fantasiosa l’idea, veicolata in alcuni ambiti della sinistra, di un qualche progetto occulto dietro la sua diffusione. Così non riteniamo credibili ipotesi, che sono state fatte, su un progetto ben definito del capitalismo di usare l’emergenza per sperimentare forme di controllo autoritario della società.

In realtà siamo di fronte a processi e provvedimenti, come dicevamo sopra, assolutamente contraddittori e non pianificati che anzi dimostrano la crisi di direzione della borghesia che non è in grado di mettere in campo un orientamento unitario mettendo in luce ancora una volta come siano forti gli interessi e la contrapposizione tra le borghesie nazionali.

Vero è però che un processo di restringimento della democrazia è già in atto nel nostro paese come in tutta Europa e un apparato legislativo in tal senso è già stato approntato tramite i decreti Minniti-Orlando prima e Salvini poi. La vicenda del coronavirus può dare degli insegnamenti utili sul modo di usare le emergenze a fini antidemocratici e la borghesia, a differenza della sinistra, impara in fretta.

In secondo luogo, in questi giorni abbiamo toccato con mano la forza degli strumenti di propaganda di massa. Il tam tam dei media nel giro di pochissimo tempo ha creato un clima di panico generalizzato portando agli episodi di accaparramento di generi alimentari anche in situazioni totalmente esterne alle aree di contagio nonché all’estendersi di un sentimento razzista nei confronti degli “untori” cinesi.

In terzo luogo, la crisi da Covid19 ciò ha fatto emergere un aspetto forse ancora troppo sottovalutato ma che impatta fortemente sulle stesse forme della politica. In un paese come l’Italia, in cui relativamente più robusto era un tessuto sociale solidale che si nutriva di numerosi apporti, non ultimo quello del movimento operaio, le controriforme liberiste hanno agito in maggior profondità avendo un effetto simile a uno tsunami, spazzando via le vecchie forme della socialità a beneficio di un individualismo competitivo che si è così manifestato in modo aberrante. Si tratta di una mutazione profonda, già analizzata a suo tempo da sociologi come Richard Sennett, in cui l’homo oeconomicus neoliberale è si è imposto come figura della concorrenza generalizzata e generatrice di paura, angosce, solitudine, senso di sradicamento, perdita di punti di riferimento, incidendo profondamente sulla psicologia di massa.

Ma questa emergenza ha anche rivelato con forza i devastanti effetti sociali di queste controriforme, in particolare sulla sanità pubblica e sul diritto alla salute, oggi sempre più aleatorio

La sanità pubblica non sta bene, dopo dieci anni di continui tagli: meno finanziamenti, meno lavoratori.

 Il finanziamento pubblico è stato decurtato di oltre € 37 miliardi, di cui circa € 25 miliardi nel 2010-2015 ed oltre € 12 miliardi nel 2015-2019,

 In termini assoluti il finanziamento pubblico in 10 anni è aumentato di € 8,8 miliardi, crescendo in media dello 0,9% annuo, tasso inferiore a quello dell’inflazione media annua (1,07%).

 Il DEF 2019 ha ridotto progressivamente il rapporto spesa sanitaria/PIL dal 6,6% nel 2019-2020 al 6,5% nel 2021 e al 6,4% nel 2022.

 L’aumento del fabbisogno sanitario nazionale per gli anni 2020 (+€ 2 miliardi) e 2021 (+€ 1,5 miliardi) è subordinato alla stipula tra Governo e Regioni del Patto per la Salute 2019-2021, tuttora al palo.

  • I dati OCSE aggiornati al luglio 2019 dimostrano che l’Italia si attesta sotto la media OCSE, sia per la spesa sanitaria totale , sia per quella pubblica , precedendo solo i paesi dell’Europa orientale oltre a Spagna, Portogallo e Grecia. Nel periodo 2009-2018 l’incremento percentuale della spesa sanitaria pubblica si è attestato al 10%, rispetto a una media OCSE del 37%.
  • Tra i paesi del G7 le differenze assolute sulla spesa pubblica sono ormai incolmabili: ad esempio, se nel 2009 la Germania investiva il 50,6% in più dell’Italia , nel 2018 la differenza è del 97,7% sempre a favore della Germania.

– Va considerato che almeno il 50% degli oltre € 37 miliardi sottratti alla sanità pubblica negli ultimi 10 anni sono stati “scippati” al personale dipendente, il piano di assunzioni straordinarie di medici e infermieri citato dal Programma di Governo se da un lato sicuramente contribuirà a risolvere la carenza di risorse umane, dall’altro non concretizza nessun rilancio delle politiche per il personale sanitario che non deve solo essere adeguatamente “rimpiazzato”, ma soprattutto motivato con l’allineamento delle retribuzioni a livello europeo.

Ogni giorno piccoli ospedali e servizi territoriali sono chiusi, la lista d’attesa per visite e esami si allunga, le condizioni di lavoro dei medici e degli operatori peggiorano, l’accesso a servizi di qualità e per tutti non è più garantito.

Questa realtà presente in molti paesi europei non è una fatalità! È solo la conseguenza di politiche perseguite dai vari governi e dalle istituzioni europee con un obiettivo chiaro: vendere la nostra salute privatizzandola.

Per questo motivo e con modalità diverse da paese a paese il servizio pubblico si riduce o viene distrutto completamente e ciò avviene togliendo le risorse umane e i finanziamenti necessari per il suo buon funzionamento.

Questi attacchi portano inevitabilmente a due tipi di sistema: un servizio sanitario pubblico per i meno abbienti e una sanità privata per chi se la può pagare.

Queste politiche sono accompagnate con una propaganda ridondante secondo cui il privato sarebbe più efficiente e meno caro. Peccato che i dati smentiscono questa favola: i paesi che hanno adottato una sanità pubblica spendono meno e i loro cittadini godono di maggiore tutela e di maggiori cure.

Domandiamoci allora a chi conviene privatizzare e commercializzare la salute? Sicuramente all’industria farmaceutica e delle apparecchiature sanitarie, ai grandi gruppi di cliniche private e di case di riposo private. Questi fanno profitti con i soldi di ciascuno di noi (tickets, compartecipazione alla spesa, rette)

Domandiamoci cosa fa la sanità privata contro la diffusione del coronavirus: nulla perché non c’è da guadagnare.

Così oggi, mentre gli ospedali pubblici non hanno posti sufficienti per un eventuale ricovero nel caso di aumento della diffusione del virus, niente viene chiesto alla sanità privata.

Lo stesso vale per il mondo del lavoro, a cui ancora una volta viene chiesto di pagare un conto di cui non ha alcuna responsabilità

Confindustria chiama…il governo risponde

Con il cinismo che gli è proprio, anche il mondo dell’economia e della finanza reagisce all’epidemia da virus COVID-19. Detto in altri termini, la borghesia, in tutto il pianeta, si pone il problema di come l’emergenza sanitaria rischi di intaccare i suoi profitti e, nel caso, di come scaricare le perdite su altri, ovvero sui lavoratori e sulle lavoratrici.

Discarico che può avvenire in due modi: in via diretta, riducendo la massa salariale (cassa integrazione, licenziamenti, utilizzo forzoso delle ferie); o in via indiretta, facendo pagare i costi agli stati nazionali (indennizzi, incentivi alla ripresa, finanziamento della cig, etc.).

I mercati azionari, come sempre, sono lo specchio degli umori delle classi dominanti e dell’irrazionalità sociale della gestione capitalista dell’economia. Lunedì 24 febbraio, acclarata la notizia dell’aumento dei casi di “coronavirus”, la borsa di Milano (indice Ftse Mib) ha perso il 4,2%, con titoli che hanno sfiorato il calo in doppia cifra. D’altra parte, gli analisti ormai danno per certo un impatto dell’emergenza sanitaria sul Pil italiano, anche se nessuno è ancora in grado di quantificarlo. Tra i settori più a rischio, indubbiamente ci sono il turismo, la ristorazione collettiva, i trasporti, e, in generale, le aziende con attività più concentrate nel Nord Italia.

Uguale la reazione delle borse nel resto d’Europa, sempre nella giornata di lunedì: Parigi ha perso il 3%, Francoforte il 2,9%, Londra il 2%, Madrid il 2,85%. E in Asia: Seul ha ceduto il 3,9% e Hong Kong l’1,8%.

Se questo è lo scenario, sarebbe necessario che le organizzazioni politiche e sindacali della classe lavoratrice (quello che resta di queste organizzazioni…) si ponessero con altrettanta caparbietà e lucidità l’obiettivo opposto: i costi economici di questa emergenza sanitaria devono pagarli i padroni!

Sarebbe completamente sbagliato illudersi che il clima di apparente “concordia nazionale” e “coesione sociale” di fronte al pericolo virale possa tradursi in un atteggiamento bonario e caritatevole dei padroni! Tutt’altro! Approfitteranno della situazione di confusione e di paura per imporre ai lavoratori e alle lavoratrici nuovi sacrifici!

Basti un piccolo esempio. ANAV e ASSTRA della Lombardia, ovvero le associazioni dei datori di lavoro nel settore del trasporto di persone, in una lettera del 24 febbraio al Presidente della Lombardia Attilio Fontana, prendono atto del “divieto di usare in alcun modo gli autisti e altro personale comunque appartenenti alle aree infette” e della necessità di sospendere “i servizi di trasporto funzionali al trasporto degli utenti connessi alla chiusura delle scuole e università.” Ma subito dopo precisano (sottolineatura nostra): “Rimane da individuare il trattamento che le imprese dovranno adottare in ordine ai rapporti di lavoro in atto con i dipendenti sospesiai sensi del DPCM 23-02-2020 (…) una volta che si conosceranno le disposizioni che il Ministero del lavoro emanerà in proposito a valle della riunione di ieri con le Parti sociali.”.

Come dire: non crediate che saremo noi a pagare il conto!

Dunque, la principale rivendicazione dal punto di vista dei lavoratori e delle lavoratrici non può che essere: nessuna decurtazione di salario per i dipendenti a qualunque titolo coinvolti nell’emergenza sanitaria, né riduzione delle giornate di ferie o dei permessi spettanti.

E si badi bene: ciò, al momento, non è affatto garantito nei casi di sospensione dell’attività aziendale e di quarantena obbligatoria o volontaria.

Approfittare del varco che si è aperto

Tuttavia, l’emergenza Covid19 può essere anche l’occasione per la sinistra di classe in questo paese di sfruttare il varco che si è, pur timidamente, aperto in un dibattitto pubblico solitamente chiuso e ingessato.

Se anche editorialisti di punta di quotidiani e media dominanti, insieme a qualche voce sparsa del mondo politico ufficiale, cominciano a porsi il problema dell’inefficienza e dell’inefficacia di riforme come la modifica del Titolo V della Costituzione e l’autonomia differenziata, o anche sui problemi della sanità pubblica, a maggior ragione chi si oppone allo stato di cose presenti deve saper cogliere l’opportunità e lanciare una campagna politica e sociale che tenga insieme aspetti profondamente intrecciatila lotta per una ripubblicizzazione integrale del Servizio Sanitario Nazionale,  contro l’autonomia differenziata e l’austerità promossa dall’Unione Europea, insieme ai governi nazionali.

Crediamo che ci sia nei fatti una forte convergenza su questi temi da parte non solo di tutta la sinistra, ma di settori importanti di lavoratrici/lavoratori e cittadinanza, con cui costruire una mobilitazione la più ampia e la più unitaria possibile sulla base di parole d’ordine chiare e inequivocabili, in grado di tradurre in obiettivi concreti questa lotta:

1) NO ALL’AUTONOMIA DIFFERENZIATA! LO STATO DEVE GESTIRE CENTRALMENTE I SERVIZI PUBBLICI UNIVERSALI!

2) RIPUBBLICIZZAZIONE INTEGRALE DEL SSN! BASTA FINANZIAMENTI DIRETTI E INDIRETTI ALLA SANITA’ PRIVATA!

3) RESCISSIONE DEGLI ACCORDI CON LE STRUTTURE CONVENZIONATE!

4) SBLOCCO DEL TURN-OVER E ASSUNZIONE DI 400.000 OPERATORI SANITARI, TRA MEDICI E PERSONALE INFERMIERISTICO!

5) PATRIMONIALE, AUMENTO DELLE TASSE ALLE GRANDI E MEDIE IMPRESE, ROTTURA DEI VINCOLI AUSTERITARI DELL’UNIONE EUROPEA PER FINANZIARE I 13 MILIARDI DI EURO DI CUI LA SANITA’ PUBBLICA HA BISOGNO PER GARANTIRE A TUTTE E A TUTTI IL DIRITTO ALLA SALUTE!

6) ABOLIZIONE DEGLI ACCORDI DI WELFARE AZIENDALE CHE COLPISCONO LA SANITA’ PUBBLICA INDIVIDUALIZZANDO E MONETIZZANDO UN DIRITTO UNIVERSALE!

7) ABOLIZIONE DEL NUMERO CHIUSO PER L’ACCESSO ALLA FACOLTA’ DI MEDICINA!

Sinistra Anticapitalista si mette a disposizione per costruire sin da subito le condizioni affinché questa campagna possa prendere il via nel minor tempo possibil

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