In questi ultimi mesi abbiamo assistito alla crisi profonda dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO, World Trade Organization), fondata nel 1995 per regolamentare gli accordi commerciali tra i 164 Stati membri. Da dicembre, di fatto, le sue funzioni sono sospese, principalmente per volontà del presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Sullo sfondo, si agitano nuove guerre commerciali, in particolare quella tra USA e Cina, nell’ambito di un complesso riassetto delle gerarchie di potere tra le grandi potenze capitaliste.
In realtà la crisi di questa organizzazione ha origini più remote e ci ricorda come, al di là delle ideologie e di momentanee tregue e riassetti, il sistema capitalista non possa in alcun modo generare un “ordine mondiale” stabile, duraturo e pacifico.
Ciò che oggi manca o comunque è estremamente debole è la voce e l’organizzazione degli oppressi e di chi, anche su un piano ideale, intende proporre una diversa visione del mondo. Vent’anni fa, questa proposta veniva anche dal movimento “no-global”, che reduce dalle intense giornate di protesta di Seattle, nel novembre del 1999, si apprestava a contestare di nuovo i potenti del mondo proprio in occasione del vertice della WTO, che si sarebbe tenuto a Davos alla fine di gennaio del 2000. Protesta (poi ripetuta negli anni successivi) che non mancò di ricevere le attenzioni della polizia svizzera, la quale fece uso di proiettili di gomma e spray al peperoncino contro i manifestanti.
Per ricordare il contesto storico degli eventi e le speranze suscitate da quel movimento, ripubblichiamo uno stralcio di un articolo di Pierre Rousset, apparso sulla rivista Bandiera Rossa nel febbraio del 2000. (m.p.)
Una nuova dominazione e i suoi talloni di Achille
di Pierre Rousset, Bandiera Rossa, n. 96, febbraio 2000
L’Omc [Organizzazione mondiale del commercio] è rapidamente diventata una delle istituzioni chiave della mondializzazione capitalista al fianco del Fmi e della Banca Mondiale, del G7 e della Nato. Oggi, però, appare come un’organizzazione ancora pericolosa ma in gravi difficoltà. La posta in gioco del prossimo ciclo di negoziati è significativa; eppure il successo è lontano. Il summit di Seattle si è riunito mentre l’autorità dell’ideologia neoliberista, ancora assoluta cinque anni fa, è stata profondamente indebolita dalle crisi finanziarie del 1997-1998. L’affermazione di un nuovo ordine mondiale si rivela meno naturale e meno agevole di quanto sperassero gli apostoli del liberismo! La mondializzazione neoliberista rappresenta prima di tutto una nuova tappa dell’internazionalizzazione del capitale, verso la strutturazione del mercato mondiale. Il dinamismo di questo processo si manifesta soprattutto nell’ondata di mega fusioni industriali o bancarie di questi ultimi anni; la sua ampiezza, invece, nella riorganizzazione in corso dello spazio planetario con il consolidamento (ineguale) di zone periferiche dei tre poli della triade imperialista, e anche nell’abbandono alla disgregazione di vasti territori, come l’Africa: il controllo territoriale non ha più la stessa importanza del passato.
Ma la globalizzazione non opera solo sul piano commerciale, industriale o finanziario. Essa esprime ed esige profonde ricomposizioni sociali sia all’interno delle classi dominanti (con l’indebolimento e la marginalizzazione di diverse componenti tradizionali delle élites) che delle classi dominate (minacciate da un profondo processo di precarizzazione e frammentazione). Suscita allo stesso tempo un riequilibrio generale dei centri di potere – economici, politici o militari; nazionali, regionali o internazionali – assegnando ruoli nuovi alle istituzioni mondiali nate nel dopoguerra, a spese dell’Onu e dei suoi organismi, come l’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil). Il nuovo ordine internazionale implica una nuova modalità mondiale di dominazione di classe. Ora, se il progetto neoliberista si è affermato precocemente con Ronald Reagan negli Usa e Margaret Thatcher in Gran Bretagna, ha però assunto la sua dimensione planetaria solo dopo l’implosione del blocco sovietico – diciamo, simbolicamente, dopo il crollo del muro di Berlino nel 1989. Cioè appena dieci anni fa. Un decennio durante il quale l’Fmi ha affermato la propria autorità sull’Europa orientale, è nata l’Omc, la Nato ha intrapreso la sua marcia verso Est e proclamato la propria vocazione mondiale – e durante il quale il G7 ha cercato di ridefinire, con qualche difficoltà, i propri poteri. Ma un decennio in cui si è manifestata anche la prima forte crisi del processo di mondializzazione capitalista. Una crisi che ne mette in luce le contraddizioni economiche, sociali o politiche; e che mostra fino a che punto la stabilizzazione del nuovo modo di dominazione borghese è aleatoria.
1. Le crisi finanziarie
I mercati finanziari, oggi, sono di nuovo euforici. Ma non bisogna dimenticare la lezione delle crisi finanziarie del 1997-1998. In un anno e mezzo hanno colpito la Thailandia, poi buona parte dell’Asia orientale, la Russia, il Brasile e parte dell’America Latina, prima di esportare, con lo scandalo dei fondi pensione, la “crisi sistemica” negli stessi Stati Uniti. Meccanismi pensati in origine per rendere più sicuri i mercati finanziari hanno svolto un ruolo destabilizzante nelle mani del capitale speculativo e dei grandi azionisti della rendita. Nulla è stato risolto in questo campo. Con l’indebolimento dei modelli precedenti di sviluppo, è proprio la capacità del capitalismo contemporaneo di consolidare la propria base che oggi è rimessa in discussione dalla dittatura degli azionisti.
2. Le prime conseguenze politiche
Nel 1997 i partigiani del neoliberismo hanno considerato la crisi asiatica una fortuna: doveva permettere ai capitali occidentali (visto che il Giappone non era nelle condizioni di approfittarne) di penetrare rapidamente in nuovi mercati (la Corea del Sud…) acquistando a basso costo imprese o banche sull’orlo del fallimento. Ma il ruolo di apprendista stregone che poteva svolgere l’Fmi [Fondo monetario internazionale] è apparso chiaro già nel 1998, con la caduta del dittatore indonesiano Suharto e l’apertura di una profonda crisi di regime in uno dei paesi chiave dell’Asia. L’autorità del Fondo Monetario è scesa ancora di più tre mesi dopo con gli scandali della mafia russa. Questi avvenimenti hanno provocato reazioni di difesa in una parte delle classi dominanti del Sud. Il regime malese ha intrapreso un vero e proprio braccio di ferro con l’Fmi instaurando il controllo dei movimenti di capitali. Nel novembre 1998, l’Apec, il summit economico dell’Asia del Pacifico, si è dimostrato incapace di promuovere una nuova ondata di liberalizzazione degli scambi. Alcuni Stati della federazione brasiliana sono entrati in contrasto aperto col governo centrale sul pagamento degli interessi del debito. Questo tipo di resistenza delle élites ai diktat ultraliberisti si manifesta oggi anche all’interno dell’Omc. Più in generale le istituzioni del nuovo ordine mondiale tendono a limitare considerevolmente il margine di manovra sociale delle borghesie nazionali. Molte modalità già sperimentate di controllo sociale vengono messe sotto accusa in nome del libero scambio, della concorrenza e della parità di bilancio: l’arte del compromesso sociale nell’Europa occidentale, il populismo in America Latina, il clientelismo redistributivo in Africa, l’interventismo statale in Asia. Il Fmi e l’Omc propongono la legge delle finanze, dell’industria e del mercato come unica strada, imponendo una dominazione particolarmente “feroce” che può funzionare solo in assenza di resistenze collettive di una certa ampiezza.
3. Le resistenze collettive
Questa è quindi la questione centrale. In molti paesi i movimenti sindacali, sociali e democratici si sono notevolmente indeboliti nel corso degli anni ’90. Ma non abbastanza per il nuovo ordine mondiale. La vittoria raggiunta contro l’Ami [Accordo multilaterale sugli investimenti] nell’ottobre 1998 è, in questo senso, molto significativa. La mobilitazione contro questo accordo scellerato è stata breve e non ha coinvolto che un ristretto numero di paesi (Canada, Stati Uniti, Francia…). Non ha dato luogo a manifestazioni ampie, ma ha coinvolto uno spettro rappresentativo di organizzazioni. Sotto questa pressione il governo francese ha deciso per primo di rompere i ranghi e di ritirarsi in maniera spettacolare dal negoziato all’interno dell’Ocse, anche se ha proposto di riprenderlo in seguito nell’Omc. Questa vittoria (temporanea) è stata raggiunta più facilmente di quanto pensassimo all’epoca. Perché i disaccordi tra i diversi governi del Nord erano già ampi, e ravvivati dalle crisi finanziarie. Ma anche perché l’Ami esprimeva così brutalmente il dominio delle multinazionali da essere indifendibile una volta reso pubblico.
L’assenza di legittimità democratica si è rivelata effettivamente uno dei talloni di Achille del processo di globalizzazione capitalista. La socialdemocrazia europea e (in certa misura) Bill Clinton cercano adesso di trarre insegnamento dal fiasco dell’Ami. Proclamano la “trasparenza”, “comprendono” le preoccupazioni dei manifestanti anti-Omc e li invitano al “dialogo”. Tutti condiscono il proprio discorso con preoccupazioni solidali, terzomondiste, culturali ed ecologiste, per mascherare meglio la sostanza: l’approfondimento del processo di liberalizzazione economica e di spoliazione democratica. Pascal Lamy, il commissario europeo che ha diretto la delegazione a Seattle, ha quindi ricevuto mandato di ricercare un accordo per la liberalizzazione degli scambi, solo con alcune clausole restrittive sul rispetto della diversità culturale, del principio di precauzione in materia sanitaria o ambientale e di un dialogo con l’Oil rispetto a norme sociali minime. Questo significa che il libero scambio deve rimanere la regola e le deroghe (provvisorie per definizione) l’eccezione. L’Unione Europea (governo francese compreso) richiedono con vigore l’allargamento delle competenze dell’Omc – al contrario della principale esigenza dei manifestanti mobilitatisi per bloccare tale possibilità, con la proposta di moratoria. Non bisogna certo sottovalutare la controffensiva ideologica lanciata con i grandi mezzi di comunicazione dal “social-liberismo” (“sempre meglio le regole dell’Omc che l’assenza completa di regole”). Ma stando alle reazioni di Seattle (dove la gran parte dei movimenti di contestazione hanno rimandato al mittente le offerte di “dialogo”), essa incontra alcune difficoltà ad essere convincente.
Da un lato la mondializzazione capitalista lacera il tessuto sociale e indebolisce le classi popolari generalizzando la precarietà; cerca di distruggere i diritti collettivi conquistati con le lotte passate per sostituirli, quando va bene, con elementari strumenti di assistenza sociale restrittivi e individualizzati. Ma dall’altra, crea le condizioni di nuove solidarietà: le stesse istituzioni internazionali portano avanti le stesse politiche neoliberiste in tutti gli ambiti, in tutti gli ambienti e in tutte le parti del mondo. La campagna contro l’Omc è destinata a durare almeno tanto quanto durerà il Millenium Round. Ci fornisce l’occasione di ritessere queste nuove solidarietà mondiali in una lotta comune, di far vivere un nuovo internazionalismo.
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