Di Giovanni Urro


I primi due anni sono trascorsi nel segno della rabbia, del disprezzo, persino dell’odio. Un odio antico contro tutto ciò che Sesto San Giovanni ha rappresentato: la sua storia antifascista, la medaglia d’oro della Resistenza, il tessuto sociale del variegato mondo associazionistico, la rete dei servizi per i più deboli… Tutto è finito in soli due anni nel tritacarne di una amministrazione di Destra che ha brillato in ciò che ha saputo distruggere non sapendo costruire alcunché. La svendita delle farmacie comunali, l’asservimento ai poteri forti della speculazione edilizia, lo sfratto delle associazioni dalle loro sedi storiche, la rabbia cieca contro ANPI e ANED, l’esternalizzazione dei servizi sociali, educativi e culturali, il furore xenofobo nelle procedure di assegnazione degli alloggi popolari, il vano girovagare  delle camionette dell’esercito per le strade cittadine, i provvedimenti di allontanamento per chi chiedeva l’elemosina… Sesto San Giovanni è stata in questi due anni un terribile incubatore delle peggiori nefandezze leghiste. É stata il laboratorio in cui generare e liberare gli istinti più bestiali di una politica fondata sull’arroganza. È stata il terreno fertile per la costruzione di tanto rapide quanto opportunistiche carriere politiche a conduzione familistica, dove un sindaco senza un benché minimo pudore istituzionale, scrive ai cittadini per invitarli a votare sua moglie alle elezioni europee. Lui, il primo cittadino tutto selfie, il capo di una amministrazione talmente ostile ad ogni sentimento di solidarietà che persino il decanato locale, nella sua annuale lettera alla città, ha sentito il dovere di condurre una dura reprimenda verso una prassi amministrativa che prova a cancellare gli ultimi. Prova a mandarli via con il triste rosario dei DASPO urbani, bravate alla Gennaro Parsifal, tanto inutili da indurre la prefettura ad intervenire per sollecitarne un uso meno propagandistico. Prova addirittura a cancellarli dalle liste dell’anagrafe, come capita a chi subisce uno sfratto e si ritrova un Comune che resta alla finestra mentre viene sbattuto per strada, spesso famiglie intere con minori. Privati di un alloggio, si finisce per diventare fantasmi privi di ogni più elementare diritto. Perché se non sei iscritto all’anagrafe non esisti, non hai diritti, non hai un volto e un profilo che ti renda riconoscibile  nella società. È la guerra di classe ma al contrario. La guerra dove i potenti costruiscono il loro bel mondo edulcorato, dove il diverso viene espulso, dove chi ha bisogno (e sono tanti, e sono troppi!) viene abbandonato al suo calvario. In una società priva di quelle risposte collettive che un tempo avevano sorretto la spina dorsale operaia di un intero paese, oggi ci si ritrova tristemente soli. E da soli si soccombe contro un nemico che ci ha spezzettato, frantumato, dissolto nei mille rivoli di una dimensione privatistica piccolo-borghese, dove ci si illude di poter vincere e si finisce con l’essere travolti da una crisi che non abbiamo voluto, che non abbiamo cercato ma che continuiamo a subire. 
Sino a quando? Mentre i partiti annaspano nel tentativo di una ricostruzione dall’alto che ha il vago sapore di un triste dejavu, solo un vero e ampio movimento di giovani, di lavoratori e lavoratrici, di migranti, di donne può dare un segnale di speranza. A tratti lo si vede. A tratti. Bisogna unire quei tratti e farli diventare un fiume in piena. 

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